HOT HOUSE

“Paradise is exactly like where you are right now… only much, much better.” –Laurie Anderson, Opening lines from Language is a Virus (From outer Space), 1986.

Impariamo a parlare per imitazione: il linguaggio agisce su di noi come un virus, ci contagia e ci modifica; come un virus continua a contagiare e a modificarsi, fake news.

Tre anni fa con la mostra Processed world, Christopher Michlig aveva mosso una dura critica alla comunicazione contemporanea, che opera un bombardamento di notizie condivise compulsivamente e non verificate, capaci di produrre solamente alterazioni di senso.

Oggi l’artista torna in galleria per portare la riflessione a un livello successivo.“Appropriazione” è il termine cardine attorno al quale ruotano i ventotto lavori inediti.
Proprio come apprendiamo l’uso della parola fagocitando i suoni ai quali siamo esposti fin dalla nascita, allo stesso modo queste opere sono il frutto di un’appropriazione e di una reinterpretazione di ricerche altrui.

Hot House consiste in sculture di carta realizzate con serigrafie dai colori fluorescenti e pattern geometrici. Le forme date loro sono ispirate alle ceramiche di Ettore Sottsass dal titolo “Yantra” (1968). Michlig le sottrae alla dimensione del tuttotondo per esporle a parete, dalla quale emergono, attraverso le variazioni di piani e inclinazioni, in una tensione costante tra bidimensionalità e tridimensionalità.
Il processo di assimilazione coinvolge anche la pratica di Haim Steinbach di disporre oggetti sopra a mensole, per indagare gli aspetti psicologici, estetici, culturali e ritualistici del collezionare e dell’ esporre.
I rilievi presi a prestito da Sottsass divengono le basi di appoggio di elementi accessori, prodotti con la stessa tecnica, che rimandano all’arte, alla cultura pop e alla quotidianità.

La scelta cromatica è invece tipica della poetica dell’artista: ai colori fluorescenti si sovrappongono pattern geometrici desunti dagli screensaver dei computer di prima generazione o dalla vita di tutti i giorni, come nel caso di impronte di scarpe, macchie di caffè e ragnatele.

Hot House è un modo di dire usato per indicare una serra o un luogo di spaccio e contrabbando.
Come il gruppo di design Memphis ha preso in prestito il proprio nome dalla canzone di Bob Dylan del 1966, “Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again”, l’autore ha adottato il titolo di questa mostra dal libro di Andrea Branzi “ The Hot House”.

La pratica di Michlig si pone all’incrocio tra arte e design, attraverso l’appropriazione di modelli da entrambi gli ambienti e la loro rielaborazione al fine di espanderne le possibilità interpretative.

Carlotta Mansi

“Language! It’s a virus! Language! It’s a virus!
Paradise in exactly like where you are right now…
Only much much better…”